30.3.13

Joker, Azzarello - Bermejo, RW Lion - La recensione

Oltre la follia, nulla



"Un consiglio? 
Non scusarti mai con nessuno per il tuo aspetto"

C'è chi alla follia ha scritto un elogio, c'è chi ha preso un aereo per oltrepassare le montagne ed andarla a guardare da vicino, c'è chi per comprenderla è impazzito e basta.
Parlo di Joker della coppia di tutto lusso Azzarello - Bermejo.
Un volume che è piaciuto, e parecchio pure.
Stampato in un'ottima edizione dalla RW Lion, è andato a ruba, ristampato, di nuovo volatilizzato, ristampato di nuovo in un altro formato e Dio solo sa se non sia finito un'altra volta.
Insomma ha tutti i requisiti per essere un must nella libreria di chiunque.
Ma vediamolo più di nel dettaglio.
In molti casi, il nome significa garanzia e Joker+Azzarello+Bermejo dovrebbe essere l'assicurazione non plus ultra migliore in circolazione.
Bello, ben fatto, scorrevole, proporzionato e lungo il giusto.
Ma.
Perché un "ma" c'è.
Il mio "ma" è dettato da diversi fattori, primo fra tutti la profondità della narrazione. Joker, come lo conosciamo, è un personaggio di per sé geniale a cui non servono troppe spiegazioni o ricami.
Joker è folle, Joker è la follia.
Non bisogna trovare una spiegazione, è così e basta. Anche Batman ci ha rinunciato. Per questo tiene alta l'attenzione, perché Joker è imprevedibile, dissacrante e spietato.
Di solito.
Io, qui, Joker l'ho visto moscio. A tratti scontato e qualche volta addirittura lucido. E non è il Joker che mi piace.
Purtroppo il tratto grafico ci porta ad un paragone irrinunciabile e cioè quello con il Joker di Nolan. Nel charachetr design Bermejo si è volutamente ispirato al Joker nolaniano, cicatrici sul volto e vestito sgargiante compreso. Per questo mi aspettavo un Joker più maturo, ancora più fuori dagli schemi. Quello che si vede in queste pagine è fin troppo classico, paradossale e fumettistico a volte.




Non basta la violenza esercitata e mostrata nel suo pieno fervore per dare profondità ad un personaggio. Nei fumetti, ma come nella vita reale, l'essenza è data dalla somma di parole, comportamenti e atteggiamenti. Mi aspettavo un Joker geniale (alla pari di quello cinematografico) e mi sono ritrovato per le mani un Joker visto, rivisto, trito e ritrito.
Il fumetto è valido, sia chiaro. Azzarello non ha fatto nulla di meno che tenere la narrazione su uno standar medio, senza troppi alti ne bassi. Forse mi aspettavo di più da quel genio di 100 bulltes, forse ho il palato troppo ben abituato e le mie aspettative sono al di sopra della media.
Per quanto riguarda Bermejo (e io ho un debole per questo Lee nostrano a cui piace tanto l'Italia) qui fa gli straordinari, e si vede. Tavole magnifiche, inchiostrate sapientemente, si susseguono in un tripudio di tonalità che seguono una scala ben precisa durante la narrazione noir. Indimenticabile la tavola con il primo piano del Joker che si infila la pistola in bocca ed ha un occhio spalancato. Begli effetti siluhette, ottima scelta dei punti luce e dei colori di sfondo. Insomma, un bel prodotto, confezionato ed impacchettato al punto giusto.


Peccato per un Azzarello leggermente sotto tono, che non riesce ad rendere al meglio la suspance dell'imprevedibiltà della follia del Joker. Non spoilero ma faccio un esempio: la scena, apparentemente senza senso, dei sue anziani nel letto. Prevedibile e fuori sincrono con il resto della storia.
Il finale è aperto da un punto di vista dello story telling, chiuso se si vuole dare una spiegazione "clinica" hai comportamenti di Joker e di quelli che hanno a che fare con lui. Una spiegazione, oltre la follia, c'è e ce la racconta Azzarello in un ultimo scatto di reni al foto finish nell'ultima pagina.

Dunque, ricapitolando.
Joker è un buon prodotto e la coppia Azzarello-Bermejo, più che collaudata, funziona come meglio non potrebbe. Ma, sinceramente, da due geni del loro calibro, mi sarei aspettato qualcosina di più.
Ho impiegato parecchio per recuperare un copia di questo volume e non me ne sono affatto pentito. Quello che non capisco, è il perché ci abbia messo così tanto per farlo. Colpa delle poche copie prodotte o del fumetto accolto dai lettori come straripante e miliare ?

27.3.13

Battlefield 4, il video in anteprima


Diciassette minuti di brividi





Parlo come uno che questo video lo desiderava come il pane. L'aspettativa era tanta e Dice non ha tradito.

Questa mattina è uscito il primo video ufficiale del single player di Battlefield 4 (il video sta QUI)
Che dire. A dir poco spettacolare. Non c'è stato un attimo in cui non ho avuto i brividi.
Ma procediamo con ordine.

Il video è bello lungo ma non per questo annoia. Anzi, carica ancora di più l'aspettativa di chi lo attendeva.

Il filmato si apre con una sequenza video senza azione, sceneggiata magnificamente e realizzata ancora meglio.
Tutto mi sarei aspettato tranne che Bonnie Tyler e la sua Total eclipse of the heart, aprisse la promo di Battlefield. E' stato così ed è stato magnifico.
La storia (che non spoilero) si snocciola seguendo la tematica dell'inseguimento dei cattivi (tanti e spietati) ai buoni (disperati e male armati). Si può riassumere in breve con: scappa, spara, scappa ancora, spara di nuovo, spara a tutto ciò che si muove, continua a scappare, oddio-ma-che-è-un-elicottero-quello, scappa, buttalo-giù-te-ma-che-sei-matto, scappa, spara e fai esplodere.

Le prime impressioni sono state più che positive. Effetti luce e particellari splendidi, giochi di luce e colori che fanno sbattere la mascella per terra ed una fisicità corpuscolare sempre più perfetta.

E' vero che parliamo di un video ottimizzato per Pc e non per console, è vero che si parla sempre del comparto single player (e dunque dedito alla scenograficità e alla spettacolarità), è vero che da qui all'uscita, e alla conversione per console, troppa acqua deve ancora passare sotto i ponti, ma, credetemi, questo è una vera bomba.
Le armi e gli scenari mostrano un livello di dettaglio mai visto prima. Sempre in tema di scenari, tutto sembra completamente distruttibile.
Un fastidioso muro si para tra noi e il cattivone di turno?
Non c'è problema: tiro fuori il mio fedele lanciagranate, faccio un bel buco nel muro, arrivo alle spalle del tizio e, con il mio simpatico fucile a pompa, lo sradico dal terreno.
Si, lo sradico e gli faccio fare un salto di tre metri.
Completa distruzione, esplosioni spettacolari e accoltellamenti infami alle spalle, sembrano all'ordine del giorno.
Per quello che riguarda la storia è ancora un po' presto per dare un giudizio reale. L'ambientazione sembra tratta dal solito esotico Medio Oriente, ma non ci metterei la mano sul fuoco.
Quel che mi è sembrato è che i dialoghi e le battute siano state più curate che in passato. Anche le sequenze animate non gestite dal giocatore, sembrano più cinematografiche che mai.
Come si poteva immaginare, il video finisce in sospeso facendoci tirare il fiato ancora una volta.

Siamo stati già abituati a filmati del genere da parte di Dice (sicuramente qualcuno si ricorda il video introduttivo di Battlefield 3 in Afghanistan) e la conseguente puntina (piccola piccola) di delusione una volta che il gioco è approdato su console (sono utente Xbox e PS3, quindi parlo a nome di entrambi i partiti). La resa grafica era certamente ottimizzata per Pc e non per console, il che, però, non toglieva poi molto ad un gioco solido ed innovativo, l'unico vero sfidante del Re (Call of Duty).

Spero che il comparto multigiocatore, già perfetto, sia riproposto senza troppi stravolgimenti, magari ancora più ampliato del precedente.

A Battlefield ho votato molte ore della mia età adulta, e non me ne vergogno a dirlo.

Un gioco così completo, complesso e coordinato in squadra, mai aveva visto la luce. Per questo quarto capitolo le aspettative sono molte: chi è che non si aspetta il raggiungimento della perfezione negli fps?
Beh, io sono uno di quelli. E se Battlefield 4 manterrà le promesse che ci ha fatto già da qualche tempo fa, per quello che riguarda me, credo che la mia vita sociale smetterà di esistere.

Sto già accumulando provviste in barattolo nel mio bunker sotterraneo.

26.3.13

Samurai Sword, gioco di carte - La recensione


Allegre mazzate nel paese del Sol Lavante





Nome: Samurai Sword
Creatore: Emiliano Sciarra
Editrice: Dv Giochi



Ho avuto l'opportunità di provare questo gioco e mi sono detto "Perché non esprimere un parere?".


Nessun delirio di onnipotenza, ve lo assicuro, mi piace solo scrivere ciò che penso di qualcosa su cui investo del tempo (ludico, videoludico e letterario).

Per chi lo conoscesse già, Samurai Sword è un gioco da tavola di carte modellato sul Bang! system.
Che roba è Bang!, direte voi?
Bang! è uno dei giochi di carte da tavola italiano più famoso negli ultimi anni.
Ha preso parecchi premi, anche all'estero, e riproposto in varie edizioni in questi anni.
Samurai Sword prende il metoo di gioco proprio da Bang!, in cui ogni giocatore seduto a tavola interpreta un ruolo e ha un personaggio diverso.
Lo scopo del gioco è abbastanza semplice: accoppa tutti gli altri giocatori, disonorali sul campo di battaglia, acquista i loro punti onore uccidendoli, vinci e dileggiali dopo averli sderenati (componente fondamentale se si è tra amici).

L'ambientazione del gioco è quella del Giappone feudale, patria di ninja e samurai. I giocatori vengono divisi in tre schieramenti, che rimangono nascosti fino alla fine della partita. Gli schieramenti in campo sono così ripartiti: i silenziosi ed infami Ninja, gli onesti e coraggiosi Samurai, il grande e sapiente Shogun, ed infine (quel povero cristo schierato da solo) il solitario Ronin.
I ruoli dei giocatori rimangono coperti fino alla fine tranne quello dello shogun (che beneficia di alcuni potenziamenti proprio perché rivelato da subito). Lo scopo per i ninja è quello di uccidere shogun e samurai e fare più punti di questi, quello di shogun e samurai il contrario, e quello del ronin (a mio avviso, il senzatetto del tavolo) è quello di rimanere con più punti onore di tutti gli altri, alla fine della partita. I punti onore si guadagnano sconfiggendo gli altri giocatori in duello, ma poiché i ruoli rimangano coperti, è molto frequente una zuffa sconclusionata tra giocatori degli stessa fazione. Del resto questo è il Bang! system, solo che invece a spararsi in faccia nel far west, qui ci si prende a mazzate nel paese del Sol Levante.
La componente ruolistica segreta dà molta enfasi al gioco. Metà partita, in cui spadroneggia il bluff più spietato, si passa a cercare di scoprire chi sono gli alleati e i nemici.
Il più delle volte quando sentirete dire "Non colpirmi, sono con te!" è il momento di sferrare un attacco violento.
Almeno tra i miei compagni di gioco, funziona così.
Tralasciando la qualità delle mie amicizie, non entro troppo nelle meccaniche del gioco.
Il Bang! system funziona ma, come ogni gioco da tavola, ha le sue pecche. Qui i giocatori non vengono mai eliminati dal tavolo, come succedeva in Bang!, ma, anche così, il gioco soffre qualche problemino. Queste piccole manchevolezza (conteggio sbilanciato dei punti onore, ripetitività di alcune azioni e mancanza di varietà nelle carte), a mio avviso, possono essere superate se la componente funny del gioco le supera di gran lunga.
Ed in questo caso, se giocato con le persone giuste (possibilmente infami a sufficienza), è così.

Posso affermare senza remore, che Samurai Sword è adatto per tutti, soprattutto a chi cerca un gioco veloce, semplice e divertente.
Magari chi è più avvezzo ai giochi da tavola, avrà qualcosa da ridire, perché il gioco, a seconda del numero dei partecipanti, risulta a volte troppo causale o troppo sbilanciato.
Ma tutto ciò passa in secondo piano quando si può avere la possibilità di prendere a mazzate gratuite (e figurate) i propri amici di tante serate.




Per farla breve:

- Se conoscete Bang! e lo avete amato, non farete altro che giocare divertendovi a questo gioco. Non vi aspettate il miracolo di veder superare Bang! perché, di fatto, è impossibile
- Se siete giocatori esperti ed esigenti, vi consiglio di lasciare stare.
- Se cercate quaranta minuti di vero svago in compagnia, anche se non credevate neanche all'esistenza di giochi da tavola al di fuori di briscola e scopone scientifico, non vi resta altro che andare in negozio e comprarvi il gioco a meno di venti euro.




A voi la scelta !

23.3.13

Educazione siberiana - La recensione


Dopo la banda della Magliana, quella di Fiume Basso


"Un uomo non può possedere più di quanto
il suo cuore non possa amare"

Prendi un evocativo contesto storiografico, piazzaci un grande attore (John Malkovich), aggiungici la banda della Magliana, schiaffaci in mezzo il sosia russo di Russel Crowe e fai girare/mescolare tutto da un grande regista (Gabriele Salvatores).

Il risultato?
Deludente, sotto tutti i punti di vista.

Forza, sotto a rimboccarci le maniche.
Perché deludente ?
I motivi sono tanti e disparati. Partiamo dalla storia in sé e per sé. In tutta onestà non ho letto il libro, quindi mi attengo a ciò che ho visto sul grande schermo.
La storia è quanto mai frammentata tra la narrazione principale (in un' epoca contemporanea) e continui flashback che raccontano periodi diversi dell'infanzia e dell'adolescenza dei protagonisti.
Descritta così potrebbe avere un senso logico ma, fidatevi, un senso di continuità questo film non ce l'ha. I continui flashback (che durano svariato tempo) tendono a confondere la storia principale (sempre se di storia principale si possa parlare) per due motivi.

-durano troppo e sono troppo slegati con il plot primario

-al livello narrativo, hanno dei buchi che la faglia di Sant'Andrea non potrebbe eguagliare in profondità


Vi faccio due esempi di questi famigerati buchi. La scena del casinò sulla barca e il fiocco celeste, ritrovato magicamente.
Chiunque abbia ragionato per più di cinque minuti su questi due particolari (eravamo in quattro, giuro), ha visto spuntare sulla propria testa un enorme punto interrogativo. E' così quando il film è un mistery, ma così mistery, che manco perdono tempo a spiegartelo.
I protagonisti sono mosci e l'antagonista mi è sembrato un bambino di quattro anni a cui hanno tolto le caramelle. Malkovich (nella veste del nonno dei due protagonisti) fa più da narratore che da partecipatore attivo agli eventi. E da solo, mi dispiace dirlo, non basta a risollevare la baracca.

Ma parliamo del doppiaggio italiano.
In una parola, inspiegabile. Capisco e approvo film come Romanzo Criminale o Vallanzasca, in cui tutti gli attori si attestano al dialetto del luogo di origine. Bene, se dunque il setting è posto in Siberia, mi aspetto che se uno comincia a parlare russo all'inizio del film, lo facciano poi tutti gli altri. Ebbene, perché solo i protagonisti parlano italiano corrente e gli altri, compreso Malkovich, sembrano appena usciti da un cartone animato?
Aberro all'idea che sia stato scelto di doppiarli così per un fatto puramente numerico di battute. Mi è arrivato precisamente questo messaggio: se parli tanto e hai l'accento russo, sembri più un disadattato che uno tosto.
La fotografia e la regia è buona (ci mancherebbe altro) e la sceneggiatura non sarebbe poi così malvagia se accompagnata da un briciolo di più di azione.
Più che criminali, i Siberiani mi sono sembrati filosofi da strada.
Peccato, però. Il film ha retto la corda per quindici minuti: il tempo che il contesto storico (tremendamente interessante) scemasse in un vortice di insulsaggine, grigiore e prevedibilità dichiarata.
Mi sarei aspettato tutto ma non questo (poi dici perché non paghi il canone alla Rai). Perché questo film è marchiato Rai, sia chiaro.
Un bellissimo autogol in rovesciata nella porta del cinema italiano, insomma, con annessi insulti dei tifosi e dei telecronisti.
Non è bastato un buon Malkovich per dare lustro e splendore ad un qualcosa che poteva essere decisamente narrata meglio.

Mio personale Oscar va al film intero. Proprio così: entra prepotentemente nella mia personale classifica, spodestando un record che durava ormai da cinque anni.
Si piazza primo, a diverse lunghezze di vantaggio sulla seconda posizione occupata da Jumper, e sulla terza occupata da Superman Returns, nella mia personale classifica dei film-da-evitare-come-la-peste.
Io vi ho avvertito.


21.3.13

Suore Ninja, Zombie gay in Vaticano - La recensione



Un onesto inizio


Nato come fenomeno editoriale indipendente a Lucca Comics and Games 2011 (io c'ero, io c'ero!) ci ha impiegato poco meno di due anni per affermarsi al livello editoriale nazionale.
Quello che hanno fatto Davide La Rosa (il suo blog QUI) e Vanessa Cardinali (anche lei ha un blog, e sta QUI) ha del miracoloso (visto che siamo in tema).
Da un fumetto indipendente dal titolo provocatorio e dissacrante, il fenomeno si è espanso prima spontaneamente tramite passaparola e poi sul web. Alla Star Comics non è bastato altro che raccogliere i frutti già maturi e metterli sulla bilancia dei lettori.
Come lascia presagire il titolo, il fumetto è un attacco spianato a tutto quello che concerne l'esageratezza vaticana, papa e cardinali compresi.
Viene denunciata l'intolleranza della diversità (protratta più per tradizione, piuttosto che ideologicamente) e viene demistificata quell'aura divina che avvolge il Papa.
Ma questi sono tecnicismi.
Il fumetto in buona parte fa ridere con le sue assurdità. Non ci sono battute troppo brillanti, a dire il vero, ma tutto il contesto, fantasioso e provocatorio, fanno strappare qualche risata soprattutto a mente fredda.
I dialoghi non hanno un ritmo elevato ed i personaggi non sono molto motivati.
Piccola trovata geniale, le armi in possesso delle tre suore. I sai di San Raffaello e il femore di San Epipodio mi hanno fatto sganasciare.
Tanti riferimenti agli anni 80' (mo' vanno di moda, Zerocalcacare ne sa qualcosa) che puntano ad un pubblico più evergreen di quanto non sembri.
Non c'è molta satira o molta denuncia, la Chiesa sembra ritratta in un modo così cartoonesco che neanche sembra esistere per davvero. Qui avrebbero potuto fare meglio, magari esagerare di più come in Don Zauker e giustificare tali comportamenti tramite fatti giornalistici reali(leggetevi Don Zauker Inferno e Paradiso e poi cercate su google Athanase Seromba, purtroppo è vero).
In finale, un inizio del tutto onesto. I numeri in tutto sono sei, quindi di strada da fare ce n'è ancora.
Aspettando battute memorabili (fletto i muscoli e sono nel vuoto), diamo fiducia a questo progetto editoriale nato dal nulla, come per miracolo spontaneo e divino.

Ah, se lo sapesse il Papa.


Il grande e potente Oz - La recensione

Prima le storie si raccontavano al letto, adesso al cinema




Cadono i diritti d'autore e sorgono le opportunità. Quelle limpide opportunità che ti permettono di risparmiare sul brand e di investire in computer graphic.


In due parole, signore e signori, Il grande e potente Oz.

Film dagli effetti sbalorditivi e marchiato zio Mickey (Mouse, purtroppo).
Ma procediamo con ordine.




Il film nel complesso non è malaccio, anzi.

Immaginatelo come una fiaba raccontata in computer grafica avanzata. Prima, queste cose si facevano al letto(raccontare la fiabe, intendo) adesso si fa prima a farci un film con tanti begli effetti speciali.
I bambini non leggono più di tanto, i grandi non hanno molto tempo e la più fervida immaginazione si impigrisce se è consapevole che in giro ci sono film del genere.
Perché, diciamocelo, il film, visivamente parlando, è davvero spettacolare.
Si apre benissimo con una lunga sequenza in 4:3 in bianco e nero; e, solo dopo un bel po', dal 4:3 di partenza si passa ad un 16:9 coloratissimo e vivace. Veramente una bella trovata Sam, complimenti. Perché Sam (Raimi), quello di Spiderman e L'armata delle tenebre, è il regista. Nel complesso, la regia è più che buona. Buoni tagli d'immagine, buone inquadrature, ottimi close-up al momento giusto (le unghie smaltate delle mani congiunte delle streghe).
Il tutto viene aiutato da scenari ed effetti luce mai visti prima sul grande schermo. In tempo di crisi Mr. Disney ha voluto investire denaro e l'ha saputo fare bene.
Per quello che riguarda la storia, qui ci addentriamo in un passaggio pericoloso.
Prequel del libro Il mago di Oz e del suo relativo film, la durata della pellicola è quanto mai giusta: 127 minuti sono l'esatto metro per un film che oscilla tra il "vediamo che si inventa adesso" e "sbrigatevi, tanto so come finisce".
Un onesto James Franco(si, quello che pare James Dean, bravi) regge da solo un personaggio che avrebbero (gli sceneggiatori) potuto calcare meglio. Oz è bugiardo, egoista, pauroso e scaltro. E' tutto questo in proporzioni troppo giuste, così giuste che non abbiamo né lo slancio per odiarlo né quello per idolatrarlo. Fa ridere il modo in cui si districa nei guai in cui si è cacciato per brama, ma sembra più un sopravvissuto della sorte che un bastardo divertente.
Accanto a lui, un cast DOC a base di ferormoni (DOC pure quelli).
Michelle Williams (quella di Dawson's Creek e Shutter Island), Rachel Weisz (Il nemico alle porte) e Mila Kunis (Ted), un trittico che da solo basterebbe a far ricredere il Papa una volta per tutte. Poco scientifica la loro interpretazione ma molto utile per attrarre visitatori adulti in sala (che ci volete fare, sapete come va il mondo).
I dialoghi, soprattutto nella parte centrale, sono un po' carenti e la sceneggiatura, nel complesso, è abbastanza sempliciotta (stavo per dire rurale ma mi sono fermato in tempo).
Dunque, tirando le somme non posso dire che sia un film propriamente cattivo. Riflettendo, ti accorgi che il target a cui si riferisce è molto ampio e va a toccare tutte le età. Più il target è ampio, più il gioco si fa difficile.
I dialoghi e la trama non brillano di luce propria, diciamolo, ma gli va dato il merito di una forte solidità data alla base da una buonissima regia.
E' vero che il film non lo fanno gli effetti speciali, ma qui vale la pena di andarlo a vedere per ammirare la genialità e l'estro di chi ha realizzato le scenografie.
Se avete due ore da passare in spensieratezza senza troppe pretese, o con al seguito un ciurma festante di pargoli che vi minacciano di morte se non li portate al cinema, andateci senza troppi problemi (e accendete un mutuo nel secondo caso).
Se invece avete voglia di un film impegnato e più vissuto, lasciate perdere e tenetevi gli 8 euro del biglietto.




Voglio concludere questa mia recensione assegnando un mio personale oscar a ciò che mi è piaciuto di più in tutta la pellicola.

Ebbene, l'oscar va a Finley, la scimmietta volante, vestita da facchino, aiutante di Oz.
Non fate quelle facce, avete capito bene.
Una scimmietta che parla, vola e che indossa un cappellino a tubo, non mi faceva sganasciare così fin dai tempi del Gatto con gli stivali di Shrek.
Provare per credere.

19.3.13

Ogni maledetto lunedì su due - Zerocalcare, Bao Publishing

Ancora Zero, non vedevo l'ora



Titolo: Ogni maledetto lunedì su due
Autore: Zerocalcare
Editore: Bao Publishing
Uscita: Maggio 2013

Su Zerocalcare oramai è stato detto tutto, quindi non aggiungerò nulla. Se non il fatto che ho avuto la possibilità di conoscerlo e posso dire con certezza che è qualcuno che andrebbe conosciuto.
Non piace per quello che racconta, piace per come lo racconta.
Il che, sostanzialmente, lo differisce da milioni di carta straccia pubblicata fino ad ora.
Ti arriva diretto, Michele, senza filtri, senza manipolazioni, senza doppi fini e doppi giochi.
Perché quello che racconta lui l'abbiamo vissuto tutti, solo che lui è il bravo a raccontarlo.
E fa ridere parecchio.
Tutto questo preambolo per annunciare che a maggio uscirà la sua nuova raccolta di vignette (molte già pubblicate sul suo blog).
Io mica traggo profitto, mica lavoro per la Bao.
Mi andava di scrivere un post perché se lo merita tutto.
Probabilmente lo recensirò non appena avrò la possibilità di leggerlo ma, senza troppe remore, non limitatevi a comprarlo non appena esce, preordinatelo già da adesso ad occhi chiusi.
Perché le sue storie meritano, le risate che dona sono genuine e perché lui è italiano, di Roma.
Un fumettista prezioso, indipendente, geniale.
Se non lo conoscete fatevi un giro sul suo blog (per visitarlo, cliccate QUI) e lasciatevi andare.
Non ve ne pentirete.




18.3.13

Morti e sepolti, Chelsea Quinn Yarbro, la recensione

Morti, sepolti e (per fortuna) mai più


Titolo: Morti e sepolti
Autore: Chelsea Quinn Yarbro 
Editore: Mondadori
Genere: Horror



Che dire, l'argomento è quanto meno spigoloso se preso di petto. Se fosse per me questa recensione sarebbe già finita subito con un bel “lasciate perdere, ve ne prego”. Ma dopo aver speso le mie energie per duecento pagine di libro, non posso esimermi dal tirare le somme (deludenti) di questa opera.
Quindi, respiro profondo e cominciamo.

La storia è ambientata in una cittadina dell'Inghilterra, in un paese piccolo e con pochi abitati. Sin dal primo capitolo, si capisce che questo paesino non è così tranquillo come voglia apparire. Il libro si apre con una scena di desiderio sessuale che sfocia in un episodio di violenza inaudito protratto da un gruppo meno che mai decerebrato di arzilli zombie.
Si, avete capito bene, una sorta di sexual explicit horror alla The Dentist, in cui il lettore (se maschio) viene prima caricato di aspettativa e poi inorridito dall'uccisione dell'uomo.
Neanche in un horror di quart'ordine, già.
Ma torniamo a noi. Il protagonista è un poliziotto, il solito Rick de' noantri, che si batte e si sbatte per capire il perché del susseguirsi di omicidi così efferati.
Ebbene, il motivo è chiaro fin dalla terza pagina e l'unico a non capirlo è lui.
Zero suspance, zero atmosfera, plot scontato, personaggi più decerebrati degli zombi stessi.
Insomma, uno sfacelo letterario.
Che Clio l'abbia in gloria a questo libro.

Ho veramente poco da dire se non dare un unico merito a Yarbro. Ha dato una chiave di lettura diversa ai soliti zombi, cretini e goffi, che uccidono solamente per mera sopravvivenza. Molto morti ma estremamente astuti, molto pericolosi perché organizzati.
Oltre a questo c'è ben poco da dire. Di proposito ho evitato di commentare il finale perché più che un colpo di scena (arrivato esausto alla fine di un libro scritto troppo alla bene e meglio) mi è sembrato un tentativo patetico di dare un perché ad un qualcosa che un perché non ce l'ha.
Se volete veramente leggerlo, fate pure. Se invece volete valorizzarlo, compratelo e, senza leggerlo, prestatelo ad un amico a cui volete fare uno scherzo. Quando glie lo date, presentatelo dicendogli “leggilo, è un capolavoro”. Attendete un po' e aspettatevi una telefonata divertente e piena di insulti.

Sapete, a me è successo proprio così.


P.S: l'unico momento in cui ho avuto veramente paura è quando ho saputo che, dopo il libro, hanno fatto il film.




Se cresci, fallo in fretta.

La sottile linea scura – Joe R. Lansdale


Non sempre la vita dà soddisfazione e,
al tirar delle somme, carne e polvere
finiscono per rivelarsi la stessa cosa."



Ci sono momenti in cui nella vita è importante perdersi. Non c’è nessun valore escatologico o di redenzione, nessun bisogno remoto o primordiale, ciò che ci induce a perderci deriva piuttosto dal nostro bisogno fisico di lasciarci andare ed essere ciò che siamo veramente, anche per un minuto soltanto.

Bene, a me succede spesso, e succede in libreria.

Siete mai incappati in un libro “per caso”? Chi di voi abitudinariamente legge, credo di si. Si girovaga tra gli scaffali senza un’idea precisa in testa, si procede senza ordine logico, si afferra ciò che colpisce la vista e si leggono solamente quei trafiletti che ci fanno vibrare. Non conta l’autore, la sinossi in quarta di copertina, i commenti che abbiamo letto o i consigli di qualche amico. In quel momento conta solo ciò che abbiamo dentro e quello che ci manca.Ba sta una parola a caso sfogliando le pagine, un titolo che evoca qualcosa di lontano, e quel libro noi lo abbiamo trovato. O per meglio dire, vi ci siamo ricongiunti perché lo cercavamo già da prima. Ma non sapevamo di volerlo veramente finché non ce lo siamo ritrovati davanti.
Ho letto molto di Lansdale, quasi tutto a dire il vero. Da ciclo di Hap e Leonard alle raccolte di racconti (perdonate la ridondanza), passando per la trilogia del Drive-In e arrivando ai primi romanzi polizieschi (Atto d’amore, per citarne uno).
Bene,La sottile linea scura non l’avevo mai letto o, per meglio dire, non lo avevo mai incontrato.
Lo avevo sempre visto sugli scaffali ma non mi ci ero mai avvicinato. Fino a qualche giorno fa.
Ero in partenza per l’ennesima volta, il trolley stracolmo di vestiti, libri e tanta voglia di mettermi alla prova. Non era un viaggio di piacere ma un passo importante nella mia vita.A ndando a zonzo nella libreria dell’aeroporto, sullo scaffale della letteratura americana, ho visto questo libro. Dopo aver sfogliato altri trenta libri(e non scherzo) è bastato un attimo: l’ho preso in mano e l’ho pagato. Ho iniziato a leggerlo subito, mentre attendevo l’imbarco sull’aereo.
Beh, sin dalle prime battute mi ha rapito.
Voglio fare una precisazione.
Amo i libri a tutto tondo, quelli che raccontano di un’esistenza nel suo totale e mi piacciono meno quelli che raccontano episodi. Ma questo fa parte del mio gusto personale, sia chiaro.
Faccio un’altra precisazione.
Non sopporto i libri che hanno per protagonisti bambini o ragazzi. Il mio limite è grande, lo so, e non mi risulta difficile ammetterlo. Non riesco a rispecchiarmi nei libri che hanno per protagonisti ragazzi al di sotto di una certa età (diciamo sedici, va’) perché mi sento distante anni luce da psicologie narrative del genere. Quando lo scrittore è bravo, il gap lo sento meno (faccio l’esempio di Acque Buie, sempre di Lansdale) ma mi risulta poco credibile seguire le vicende di ragazzi messi alle prova da vicende molto più grandi di loro. Per questo amo le storie verosimili o, all’opposto, quelle totalmente inventate di sana pianta (fantasy o fantascienza). Nel primo caso non mi risulta difficile seguire emotivamente la narrazione, nel secondo, invece, mi sento libero da qualunque legaccio psicologico verosimile e posso, nella mia testa, dare credibilità a qualunque cosa mi venga sottoposta senza dare troppo adito a obiezioni del tipo “ma dai, è impossibile”. Il punto è che in un mondo magico o che non esiste, tutto potrebbe essere possibile e quindi verosimile. Mi sono dilungato solamente per darvi una chiave di lettura personale appropriata a questa mia recensione.
Ma torniamo a noi.
La sottile linea scura è un romanzo ad ampio respiro come mai Lansdale non aveva provato a fare.
Il protagonista è un ragazzo di tredici anni, la cornice è sempre quel Texas orientale che Lansdale conosce così bene.
C’è molta autobiografia all’interno della narrazione. Tutto lascia traspirare scorci di vita vissuta dallo scrittore e delle sue personali inclinazioni personali, dall’amore verso i Drive-In fino alla componente politico-razziale dell’epoca in cui il romanzo è ambientato (parliamo degli anni 60’).
La matrice autobiografica è impastata alla perfezione con il romanzone all’americana (Le avventure di Huckleberry Finn) e con una sfumatura mistery sempre presente e pulsante.
Ma la forza di Lansdale non è nella narrazione vera e propria ma nei personaggi a cui questa è affidata. Ognuno ha una propria storia, un proprio spessore, non è mai banale e attraverso le loro parole si ricostruisce il quadro della dinamica narrativa. Il testimone è tenuto dal protagonista solamente nella parte descrittiva e nel punto di vista, ciò che mette in moto gli avvenimenti sono i personaggi che sfilano, uno dopo l’altro, sulla passerella magistralmente messa a punto.
I personaggi vibrano, respirano, si scuotono e subito ti entrano dentro. Vi ricorderete bene di Buster, il proiezionista alcolista, di Rose Mary, la domestica di colore, di Stanley, il padre, di Callie, la sorella scaltra e affascinante e perfino di Nub, il piccolo cane orgoglioso e agguerrito.
La storia ha un ritmo costante, senza troppi scombussolamenti il che, penso, sia un bene. Per dare una scossa ad una narrazione arida, spesso molti scrittori introducono qualche scossone che rimescola le carte in tavola. Il più delle volte, questo colpo di scena non è tale, il lettore spesso se lo aspetta, e serve solo a dare un accelerata ad una storia fin lì sorniona e lenta.
Per Lansdale questo non esiste, la storia è pensata, orchestrata e diretta sin dall’inizio verso un punto preciso, e non si trovano nella storia accelerazioni brusche ed immotivate. Il libro è metafora della vita con tutti i suoi alti e i suoi bassi, non un surrogato artificiale di episodi che provocano emozioni repentine ed artificiali. E questo Lansdale lo sa bene.
Un finale pensato e coscienzioso dà quel tocco che permette, a chi finisce di leggerlo anche tutto d’un fiato, di sentirsi appagato, felice, triste e pensieroso. Nessuna divisione marcata tra bene e male, solamente persone che vivono seguendo ciò che sono nel loro più profondo.
Raramente ho trovato un Lansdale così vivo e passionale.
Migliore di Acque buie, a parer mio, dove la storia si trascina tra espedienti troppo arzigogolati e virtuosi, migliore dei primi thriller polizieschi, troppo tecnici e poco passionali.
Qui dentro c’è la vita, la libertà e ciò che veramente ci rende uomini e donne.
Qui dentro si respira a pieni polmoni.
Lo consiglio a chiunque abbia dieci minuti di tempo libero per leggere, senza remore.
Un libro così non annoia e difficilmente si dimentica.
Un processo costruito lentamente e con intelligenza che porta il lettore ad una crescita interiore di pari passo con quella del protagonista, che poco più che adolescente si ritrova, in un arco di tempo ragionevole, a crescere e ad affacciarsi alla vita.
Leggere La sottile linea scura mi ha portato di nuovo ad avere tredici anni e a crescere ancora una volta, attraversando quegli step cruciali che ci accomunano e che ci differenziano da chiunque altro.
Mai banale, mai scontato, questo è un racconto che va letto, non per apprendere qualcosa, ma per il puro gusto di sentirsi in un modo che solitamente tendiamo a dimenticare e a lasciarci alla spalle.